Succede ogni tanto che una foto apparentemente semplice diventi virale e si trasformi in un piccolo caso di design. Justin Bieber seduto con il figlio, un momento tenero, certo, ma c’è un altro elemento che ha attirato l’attenzione di milioni di persone: quel divano sinuoso su cui sono appoggiati, qualcosa che sembra uscito da un film di fantascienza anni ’70. Non ha schienale né angoli definiti, sembra più una scultura che un pezzo d’arredo. Eppure, non è nuovo. Si chiama Dune, è stato disegnato oltre cinquant’anni fa, ed è tornato nel nostro presente senza fare rumore, ma facendo molto effetto.
La cosa interessante non è solo che un artista pop contemporaneo abbia scelto di arredare la sua casa con un pezzo così radicale, ma che proprio quella foto lo abbia riportato sotto gli occhi di milioni di persone. Il Dune non è un divano come gli altri. È un’idea. È un modo di stare nello spazio che scarta i canoni tradizionali e abbraccia un’idea più libera e fluida di vivere la casa. E questo forse spiega perché oggi, in mezzo a mille proposte fotocopia, ci sia così tanta voglia di forme che non cercano di piacere a tutti, ma che partono da un pensiero più profondo. Anche se in questo caso ci siamo arrivati tramite Instagram.
Justin Bieber lo usa, ma Paulin l’aveva immaginato prima di tutti
Il Dune di Pierre Paulin è un divano che nasce da un’idea molto precisa: quella di trasformare l’arredo in paesaggio. Siamo nel 1970, e Paulin disegna questo sistema modulare come se stesse creando una piccola topografia domestica. I moduli si incastrano senza interruzioni e danno vita a una superficie continua, che non ha davanti e dietro, non ha sopra o sotto. Puoi sederti, sdraiarti, spostarti. Questo tipo di approccio, oggi, ci appare più che mai attuale, ma quando Paulin lo propose era quasi una provocazione.

Il Dune nasce dentro un contesto molto preciso, quello del design radicale europeo dei primi anni ’70. Un periodo in cui i progettisti cercavano di rompere i confini tra corpo, spazio e oggetto. L’idea era che l’arredo non dovesse essere statico, rigido, pensato solo per servire una funzione, ma doveva diventare parte di un’esperienza più ampia. Paulin, che aveva già disegnato icone come la Mushroom o la Ribbon Chair, porta questo pensiero all’estremo. E lo fa con la solita eleganza fatta di curve e volumi morbidi, usando materiali nuovi come la schiuma espansa e i tessuti elastici, che all’epoca aprivano possibilità completamente diverse.

Quello che colpisce, a distanza di cinquant’anni, è quanto quel linguaggio non sia invecchiato. Anzi, nel salotto di Bieber, circondato da elementi minimali e toni neutri, il Dune sembra più fresco di molti pezzi nati l’anno scorso. Forse perché non cerca di essere alla moda. O forse perché riesce a creare un’atmosfera che oggi è sempre più rara: uno spazio che non divide, non incasella, ma connette. Paulin non progettava per stupire, ma per liberare. E in un momento in cui anche la casa è diventata performance, lui ci ricorda che si può vivere lo spazio anche in modo più fluido, meno costretto, più vero.

C’è poi un altro aspetto interessante. L’operazione di riedizione del Dune, firmata nel 2021 da Louis Vuitton, ha fatto emergere una nuova sensibilità verso quel tipo di estetica. Non solo un’ammirazione vintage, ma un vero ritorno di interesse verso quei progetti capaci di raccontare un’idea e una storia, non solo una forma. E questo ha fatto sì che oggetti come questo trovassero di nuovo posto nel racconto contemporaneo, anche fuori dai musei. Il fatto che sia finito a casa di una popstar non è un caso. È il segno che certe visioni trovano sempre il modo di tornare, anche quando non ce lo aspettiamo.
Forse allora la domanda non è se Bieber abbia riscoperto Pierre Paulin, ma se Paulin, già cinquant’anni fa, avesse intuito che un certo modo di vivere la casa – libero, aperto, ibrido – sarebbe tornato ad avere senso oggi. Perché in fondo, il Dune non è un pezzo di design. È un invito. E oggi, più che mai, abbiamo bisogno di oggetti che non ci dicono cosa fare, ma ci lasciano scegliere.