In mezzo a un arcipelago incontaminato, nell’area del Red Sea Project in Arabia Saudita, si trova Sheybarah Island. Più che un’isola turistica, è un laboratorio di convivenza tra uomo, natura e tecnologia. Non ci sono automobili, le emissioni sono azzerate, tutto è alimentato a energia solare. Il cuore del progetto è Shebara Resort, un complesso di 73 capsule galleggianti, chiamate pod, rivestite interamente in acciaio lucido. Ogni struttura riflette il cielo, l’acqua e persino le stelle, dissolvendosi nel paesaggio invece di imporsi.
Quello che colpisce è il modo in cui il team ha realizzato queste strutture. Gli architetti non hanno costruito i pod direttamente sull’isola: li hanno prefabbricati a migliaia di chilometri di distanza, negli Emirati Arabi. Hanno integrato la logistica fin dall’inizio nel progetto architettonico, trasportando ogni capsula via mare e montandola poi su piattaforme galleggianti progettate per non toccare in alcun modo la barriera corallina. Con questa scelta, hanno applicato una strategia di prefabbricazione a distanza e assemblaggio off-site, una pratica ancora poco diffusa nell’hospitality, ma perfetta per ridurre al minimo ogni impatto permanente sul suolo marino.
Shebara Resort e il paesaggio del Mar Rosso come spazio di progetto sostenibile
Ogni cupola è pensata per essere autosufficiente. Non ci sono connessioni invasive, né infrastrutture pesanti. Il sistema energetico è alimentato dal sole. Invece l’acqua e i rifiuti vengono trattati localmente, con tecnologie a ciclo chiuso. Questo fa di Shebara un esempio concreto di come l’architettura possa operare in modo leggero, reversibile e integrato con un paesaggio delicato. È un caso studio perfetto per chi si occupa di progettazione in territori estremi o in contesti ecologicamente sensibili.

L’esperienza del soggiorno segue la stessa logica. Tutto è orientato verso il paesaggio. Le ville, che siano sospese sull’acqua o adagiate sulla sabbia, hanno volumi bassi e linee pulite. Gli interni sono essenziali ma pensati per amplificare la luce e le viste. Non ci sono barriere visive: l’architettura non si interpone tra l’ospite e l’ambiente, semmai lo incornicia. Anche le strutture comuni, come i ristoranti, la spa o i centri yoga, riprendono questi stessi criteri. L’obiettivo non è costruire una presenza forte, ma offrire un sistema ospitale che non alteri l’equilibrio del luogo.

Il disegno del resort non si limita alla forma architettonica. Anche l’organizzazione dei percorsi, dei materiali e dei servizi risponde a un’idea precisa di sostenibilità. Le superfici esterne lavorano con la luce riflessa, evitando surriscaldamenti. L’intero sistema di mobilità interna è pedonale o a impatto nullo. Gli ospiti si muovono all’interno di un paesaggio che rimane tale, non viene trasformato in un “parco tematico” tropicale.
Nel contesto del Red Sea Project, Shebara rappresenta uno dei nodi più interessanti per chi si occupa di architettura e turismo. Non solo per l’estetica quasi spaziale delle capsule, ma per il modo in cui quelle forme diventano una risposta concreta alle sfide ambientali e logistiche. È un caso in cui la forma non segue solo la funzione, ma anche una precisa etica progettuale. E non è l’unico progetto del genere di cui abbiamo parlato!