C’è stato un momento, per ognuno di noi, in cui il gelato non era solo una merenda estiva. Certi coni, certi stecchi ci hanno conquistati al primo sguardo, anche prima di sapere che gusto avessero. Era come se ci chiamassero da dentro il freezer, non perché avessimo fame, ma per quel mix assurdo tra design pop, colori impossibili e quell’aria da piccolo oggetto da collezione. Alcuni sono rimasti nella memoria collettiva anche se sono durati solo una stagione. Altri, invece, sono diventati un piccolo culto.
C’è chi ricorda la pipa di gelato come un feticcio anni ‘90. Chi ancora oggi cerca online le foto dello Strabik, quello con gli occhi gommosi e lo sguardo da cartone animato fuori asse. Oppure il Soft, che sembrava uscito da un film sci-fi e prometteva un’idea futuristica di gelato da passeggio. Non è questione di nostalgia, è che questi gelati hanno toccato qualcosa di più. Sono stati forma, concept, gesto. E anche se magari non erano nemmeno i più buoni, ci hanno insegnato che anche il cibo – soprattutto quello – può diventare una piccola opera di design.
Gelati iconici che ricordiamo per il design più che per il gusto
Quello che colpiva non era tanto il gusto, ma l’idea. L’immaginario. L’oggetto stesso, come se il gelato fosse solo una scusa per venderti un micro-mondo in formato stecco. E così, più che per il cioccolato o la vaniglia, finivamo col scegliere quello con la forma più bizzarra, quello che sembrava un giocattolo o un gadget. Il gelato diventava racconto visivo, provocazione visiva, e a volte persino un piccolo totem culturale.
Il primo che viene in mente a chiunque abbia passato un’estate nei primi anni 2000 è la pipa di gelato. Non era solo una forma ironica: era l’atto stesso di mangiare quella pipa che faceva ridere, giocare, condividere. Non era elegantissima, no, ma funzionava. Era uno di quei rari casi in cui il gelato diventava una specie di parodia da consumare. Lo si mangiava con la sensazione di trasgredire un po’. In fondo, era gelato travestito da altro. Ed è proprio questo che lo rendeva irresistibile.

Poi c’era il Soft, che sembrava uscito da un episodio di Star Trek. Bianco, con quella spirale perfetta da gelatiera automatica, aveva una confezione che ricordava un razzo o una cartuccia futuristica. C’era chi non capiva bene come aprirlo, e chi lo mordeva direttamente dall’alto con tutta la plastica. Dura solo un’estate, è vero, ma chi lo ricorda ne parla sempre con lo stesso tono: come qualcosa di stranamente avanzato, più esperimento di design che vero snack.
Impossibile non citare il Piedone. Quel gelato era un piede, e basta già questo per capire che si trattava di un gesto più che di un dolce. Colore acceso, forma grossolana, sapore fruttato un po’ chimico. Ma che importa. Il Piedone aveva personalità. Era anti-estetico, quasi sgraziato, eppure affascinante proprio per questo. Un gelato che non voleva piacere a tutti, ma che diventava subito riconoscibile. E in fondo è questo il segreto di ogni icona.

Poi c’era lo Strabik, quello con gli occhi gommosi. Ed è proprio lì che il design diventava giocattolo. Gli occhi sembravano pezzi da staccare, da masticare per primi, come fossero caramelle extra. Aveva quella forma da viso stilizzato, un po’ cartoon, un po’ emoji ante litteram. Uno di quei gelati che non si capiva bene se fosse rivolto ai bambini o agli adulti che non vogliono crescere. E in effetti funzionava per entrambi. Una forma ambigua, ma fortissima nella memoria visiva.
Nel tempo, questi gelati sono stati sostituiti da proposte più classiche, più minimal, più food stylist che pop. Ma il loro impatto è rimasto. Perché anche se erano pensati per durare poco, sono diventati parte del nostro immaginario collettivo. Piccole sculture effimere che hanno segnato una generazione.
E forse è proprio questo che ci manca, più del sapore: l’idea che anche una merenda da baracchino potesse essere un gesto creativo, un’uscita dal normale, qualcosa da ricordare.