Ci sono luoghi che sembrano pensati per non essere raggiunti. Non perché siano inaccessibili, ma perché chiedono tempo, strada, lentezza. Il deserto del New Mexico è uno di questi. Eppure, proprio lì, dove il sole cuoce le superfici e il vento muove solo sabbia e pensieri, Adidas ha deciso di costruire una pista da corsa. Non una qualsiasi. Una pista perfettamente circolare, completamente immersa nel paesaggio, progettata in modo da diventare parte del terreno. L’idea è semplice e quasi paradossale: togliere tutto il superfluo, portare lo sport lontano da ogni forma di rumore urbano, e vedere che effetto fa.
A prima vista il progetto lascia senza parole. C’è qualcosa di surreale nel vedere una pista geometrica incastrata tra montagne di gesso, sotto un cielo immenso, senza spettatori né selfie. L’intervento, firmato dallo studio Playlab con Mazarine Group, prende chiaramente spunto dalla land art, da quelle opere gigantesche che vivono nel paesaggio e ne fanno parte. E la suggestione è proprio quella. Ma quando si parla di sport, di performance e di corpi in movimento, la suggestione basta? O c’è un rischio che diventi solo una bella immagine da guardare, più che da vivere?
Adidas e Playlab nel deserto: esperienza sportiva o installazione artistica?
A colpire per primi sono i materiali. Niente plastica, niente strutture temporanee. Tutto è costruito in gesso locale, lo stesso estratto dalla miniera attiva che circonda la pista. Le pareti, le panche, persino l’area relax interna con il camino: tutto nasce lì, e lì può tornare, in un ciclo quasi perfetto.
La pista stessa è stata trattata con una vernice a base d’acqua che evapora nel tempo. Come a dire: niente è davvero fisso, nemmeno lo sport. Una visione poetica, certo, ma che pone interrogativi su quanto questa costruzione sia davvero pensata per l’uso costante, o se invece sia un’installazione a tempo.

Il disegno dello spazio è studiato per accompagnare due livelli di esperienza. C’è un anello esterno, basso, da cui è possibile ammirare il panorama mentre si corre. E poi c’è un anello interno, protetto da un muro più alto, che isola un’area di riposo, di sosta, di contemplazione. L’idea di fondo è chiara: trasformare la corsa in un momento di immersione totale, quasi meditativa. Correre non come prestazione, ma come gesto. Non per arrivare, ma per stare. Funziona? Forse, ma dipende da chi corre.
La distanza scelta, 200 metri, è un altro elemento che fa discutere. Non è una pista olimpionica, non è pensata per record o per velocità. È corta, ripetitiva, circolare. Alcuni la considerano un limite, altri la chiave stessa del progetto. In un’epoca in cui tutto spinge verso l’efficienza, questa pista chiede lentezza, concentrazione, ascolto. Ma non è detto che tutti siano pronti a prenderla sul serio. Perché nel mondo del running, la performance conta ancora molto. E correre senza pubblico, senza musica, senza cronometro, può mettere a disagio più di quanto si pensi.

Poi c’è la questione dell’accessibilità. Arrivare fin lì non è semplice. Serve un viaggio, serve volerci andare. È un posto per pochi, più vicino a un’esperienza esclusiva che a uno spazio pubblico. E questo sposta il discorso su un piano più ampio, che ha a che fare con il significato dello sport oggi. Chi lo pratica, dove lo pratica, con quali strumenti. Questa pista sembra parlare a una nicchia, a chi cerca silenzio e isolamento, ma anche a chi vuole dire di esserci stato. Instagram, dopotutto, è pieno di queste foto.
Il progetto Adidas–Playlab, più che una pista è un modo di ripensare lo spazio dedicato al movimento, togliendo tutto ciò che non è essenziale. Ma come spesso accade con le operazioni simboliche, resta il dubbio su quanto possano essere tradotte nella pratica. È un luogo reale, ma con i contorni sfocati di un sogno estetico.
Può ispirare, certo. Ma può anche dividere. In fondo, non tutte le corse iniziano allo stesso modo. Alcune hanno bisogno di partire proprio dal deserto. E non è l’unico progetto che lo fa!